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La schwa inclusiva e i cambiamenti faticosi

Dobbiamo parlare. A essere precisi: dobbiamo decidere come parlare – o per lo meno scrivere – perché ‘sta cosa del linguaggio inclusivo va affrontata una volta per tutte.

Come si diceva anche poco tempo fa in un’intervista, la lingua italiana ha il problema di essere implicitamente sessista:

«…in italiano per fare un discorso generico si usa la forma maschile. Sembra una sciocchezza, ma a furia di ripeterla mille volte giorno dopo giorno si finisce col creare un atteggiamento mentale in cui un genere vale meno dell’altro. Ciò viene rafforzato anche da tante frasi fatte: una persona in gamba “ha le palle”; una cosa frivola è “da froci”, e chi ha un timore “fa la femminuccia”. A volte vengono proposte soluzioni impraticabili, tipo usare asterischi e nuovi vocaboli, ma già rendersi conto del problema fa molto per ridurre le discriminazioni…»

Si tratta di un problema ben noto, che è stato preso in considerazione anche a livello istituzionale ma che alla fine si scontra con banali questioni di praticità. Non solo infatti la lingua italiana è costruita su fondamenta strutturali che non è possibile cambiare senza far crollare anche tutti gli elementi a esse collegate, ma quando si introduce una variante bisogna soprattutto fare i conti con le abitudini lessicali.
In altre parole: a cambiar modo di parlare si fa fatica, così le innovazioni per avere successo devono essere soprattutto comode da usare. E purtroppo non è affatto il nostro caso.

Per fare un esempio concreto: oggi una “soluzione” relativamente comune per riferirsi a persone di qualsiasi genere sessuale è utilizzare l’asterisco. «Car* tutt*…», scrivono certi attivisti inclusivi, e il problema è risolto… fino a quando quella frase non deve essere pronunciata ad alta voce. L’unica scappatoia è sostituire gli asterischi con circonlocuzioni che francamente non si possono sentire, tipo: «Cari tutti, care tutte e care persone non binarie…». A parte le diatribe sull’ordine in cui presentare i generi, ve lo immaginate un discorso tutto così?

Se conoscete l’inglese sì, perché in quella lingua è frequente espandere le frasi con la formula «he or she» – che peraltro non tiene conto delle identità queer e comunque… è orribile. Infatti da qualche tempo va per la maggiore un’altra soluzione: adottare il plurale inclusivo ‘they’. Che uso pure io perché non sarà bellissimo ma funziona, almeno fino a quando non si deve tradurre e ci si ritrova con obbrobri quali «la persona con cui vivi, che mangiano pizza tutti i giorni…».

Ma allora come si può rendere l’italiano più equo per tutt*? Una proposta interessante è arrivata qualche tempo fa da una fonte superqualificata, la sociolinguista Vera Gheno, che suggerisce di adottare la schwa. La schwa è il simbolo fonetico (‘ə’) che indica una vocale presente in molti dialetti ma non nell’italiano scolastico, e che funziona in modo identico a quello degli asterischi offrendo però il vantaggio di essere pronunciabile. In compenso è difficile da digitare, e sì: ha un suono discretamente orrendo.

Confesso che fino a ieri non l’avrei proprio presa in considerazione, ma Vera è stata bersagliata da una tale quantità di critiche anche violente da suggerire che fosse il caso di esaminare la questione più da vicino. I ragionamenti che ho fatto sono praticamente uguali a quelli riassunti qui sotto da Matteo Flora:

Morale: l’idea di adottare la schwa inclusiva mi fa venire l’itterizia dal fastidio, però temo che valga proprio la pena di provarci – sia per rompere le scatole ai reazionari, sia perché le alternative comporterebbero una ridefinizione dell’italiano decisamente improbabile. Il primo vantaggio che ho scoperto dopo i tentativi iniziali è che, pur di non vedere quelle ə, mi impegno di più a costruire frasi neutre all’origine. Non male, tutto sommato.

A questo punto però vi devo chiedere due cose. La prima è di non infuriarvi né quando vedrete qualche schwa nei miei prossimi articoli, né quando mi sentirete continuare a parlare in “vecchio italiano” per banale abitudine.
La seconda è di dedicare un paio di minuti al sondaggio qui sotto, con cui vorrei cercare di capire i sentimenti di chi mi segue nei confronti di questa magagna linguistica.

Grazie!

 

 

A GRANDE RICHIESTA: COME SI SCRIVE LA Ə

Un problema non da poco legato all’uso della schwa è… come diavolo scriverla con una tastiera. Stranamente è un’informazione un po’ difficile da scovare su Internet, quindi ecco qui un riassunto veloce.

I codici carattere da usare
In generale, qualsiasi dispositivo elettronico identifica ogni carattere con un codice numerico chiamato Unicode.
La schwa maiuscola ha codice U+018F
La schwa minuscola ha codice U+0259

Il modo più semplice per digitarla su computer
La soluzione più comoda che ho trovato è… non digitarla proprio, ma usare la sostituzione automatica del carattere all’interno del programma di scrittura preferito. Per esempio, io ho impostato Word Google Docs in modo che, quando digito due asterischi di seguito, li cambino immediatamente in ‘ə’.

Il modo più semplice per digitarla su smartphone
Su dispositivi Android mi sembra che la strategia più pratica sia scaricare e impostare Gboard (la trovate gratis qui) come tastiera di default. Selezionate poi come lingua Alfabeto fonetico internazionale (IPA) e come layout QWERTY: in questo modo avrete un tastierino normale, con una fila di tasti in più per i simboli fonetici fra cui la schwa.

Su iPhone la cosa è un pelo più complicata, ma ecco la soluzione di sostituzione automatica scovata da Tiziana Muglia.  Prima di tutto copiate la schwa (tipo… da questo stesso articolo?) e tenetela in memoria. Poi andate in Impostazioni > Tastiera > Sostituzione testo > +. Ora incollate la schwa nel campo Frase. Nel campo Abbreviazione invece inserite una combinazione di caratteri per voi comoda o un tasto che non usate mai (io per esempio ho scelto la ‘ü’). Et voilà!

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